
Evan Roth, già collaboratore del Graffiti Research Lab, anche conosciuto con il moniker di Ni9e, ha recentemente posto le basi per un interessante archivio, assai funzionale nel mettere in relazione due sfumate realtà, sempre più convergenti e in bilico tra arte di strada e certa progettualità web. “Graffiti Taxonomy” presenta segni alfabetici estrapolati dai graffiti, riprodotti in una scala approssimativamente compatibile e confrontabile, pur nell’estrema differenza degli stili e di ogni singolo carattere. Il progetto, dapprima sviluppato catalogando a New York le tag nel Lower East Side e nell’area compresa tra Central Park North e Harlem, ha poi trovato proficua sponda a Parigi, grazie alla Fondazione Cartier per l’arte contemporanea. Sono ben 2400 – infatti – i graffiti tag che sono stati selezionati e fotografati, dal 24 al 28 Aprile di quest’anno, in 20 differenti distretti della metropoli transalpina. Le dieci lettere più comunemente usate dai graffitisti parigini (A, E, I, K, N, O, R, S, T ed U) sono state analizzate in seguito in maniera ancora più approfondita e rigorosa. Da ogni gruppo di lettere, diciotto differenti variazioni sono state isolate per meglio sottolineare la diversità e la tipologia di ogni specifico carattere. Questi insiemi non sono intesi per visualizzare le tag più stilose, lo scopo è – mediante un ulteriore processo di astrazione – quello di evidenziare la diversità delle forme, sia nelle variazioni delle lettere maiuscole che di quelle minuscole, nelle implementazioni semplici e complesse, più o meno leggibili o enigmatiche. Tutte le diciotto lettere in ogni gruppo, sono state disposte in una griglia e assecondando l’evocativa suggestione di “piccoli multipli”, mutuata dalle intuizioni del “guru” dell’information graphics Edward Tufte, la rappresentazione di ciascun carattere in una disposizione omogenea – secondo gli stessi curatori – renderebbe infine evidenti le notevoli differenze delle forme. Tutti i caratteri sono stati accuratamente presentati su una grande parete, all’esterno del museo, trasformando così l’edificio in una “atipica” lavagna, strumento d’apprendimento del nuovo alfabeto urbano. La mostra, resa possibile grazie anche ai contributi di Robert Houlihan e Todd Vanderlin – che si sono occupati della programmazione e dell’interattività dei tool informatici – abbastanza esplicitamente è vicina allo spirito più intimo, autentico e barricadiero della street art, condividendone anche le molte “crude” manifestazioni. Mi sembra un approccio molto serio: qui non si tratta di “concedere” a qualche crew un muro di periferia per confinare un’attitudine, non si specula teoricamente nel semplice trapasso dalle strade alle gallerie d’arte o ai musei, non si strombazza un’estetica per poi vendere felpette e jeans alla moda. I segni qui – di qualunque tipo essi siano – sono riportati alla dignità d’un linguaggio ben articolato, ripercorrendo involontariamente quella stessa ispirata genesi che aveva teorizzato per bocca di Ramm:Ell:Zee, un “panzerismo iconoclasta” delle “lettere in armi”. O per dirla con un altra celebre “boutade” del maestro gotico-futurista : “tutto questo dimostra che la vecchia raccomandazione della mamma: le parole non possono farti male…..è falsa”.