
Il crollo percentuale del fatturato dell’industria musicale negli ultimi 10 anni – spiega un recente rapporto della London School of Economics – si deve a fattori di crisi economica e non certo alla pirateria. Tra il 2000 ed il 2010 il fatturato è passato da 26 a 16 miliardi di dollari e il trend negativo delle spese per l’intrattenimento, confermato anche nel 2011, difficilmente vedrà nel prossimo futuro un’inversione, soprattutto se si considera l’aumento dei costi della vita, la disoccupazione e la drastica crescita dei costi per i servizi pubblici. È la crisi economica – insomma – e non altro, ad aver agito anche su questo segmento di mercato, minandone le basi: non il downloading, che i ricercatori dichiarano ha avuto “un effetto sulle vendite che è statisticamente indistinguibile dallo zero”. Altri esperti, nel peggiore dei casi, considerata la massa critica raggiunta dal P2P ammettono che il fenomeno della pirateria può incidere al massimo sul 20% delle vendite. Qualunque sia fra queste l’analisi più vicina alla realtà, è sotto gli occhi di tutti che la disponibilità di musica certo non sia diminuita: sono aumentate le produzioni, sono facilmente disponibili sia a pagamento che nei canali del P2P e al tempo stesso si sono moltiplicate le forme d”approvvigionamento attraverso le quali reperire in differenti maniere le più disparate release. Gli amanti in musica del gratuito on-line frequentano adesso anche specifici motori di ricerca di file mp3, archivi organizzati sotto licenza ”royalty-free”, community dedicate, aggregatori di contenuti al limite della legalità ed oltre: è infatti sempre più difficile – in alcuni casi – anche solo “capire” come siano strutturati e come si mantengano economicamente certi “servizi”, quale sia il loro core-business e quale il loro livello di “legalità”. È il caso di molti siti web di file hosting ad esempio o di siti per la condivisione dei link. “Ce ne sono tanti con la stessa funzione”, dice Giovanni Garro, “alcuni sono strutturati come blog, altri come forum, ma la sostanza è la stessa. Tutti aggirano il problema della legalità facendosi forti del fatto che, non avendo sui propri server alcun materiale coperto da copyright, non violano alcuna legge”. “Si tratta di qualcosa quantomeno strana” aggiunge l’esperto in tecnologie e consulente informatico “è un po’ come un sito che offra l’elenco degli spacciatori ma non vende direttamente la droga”. I cosidetti “cyberlockers” sono siti on-line per lo storage di file digitali, siti come MegaUpload, HotFile, RapidShare, MediaFire, dove è possibile dowloadare gratuitamente un numero limitato di file, oppure per mezzo di un piccolo “abbonamento” avere molta più “usabilità” dei servizi, al fine di velocizzare il download e aumentare il numero di tracce da arraffare. Rispetto al P2P i vantaggi sono sicuramente una maggiore velocità di download, niente settaggi o particolari installazioni da compiere, così già con pochi clic gli utilizzatori di questi servizi sono pronti per scaricare quello che più gli aggrada. Al fine di ottenere migliori “prestazioni” è necessario registrarsi pagando un abbonamento che vi trasformi in utenti premium ma anche con la dotazione di base è possibile ugualmente scaricare il necessario. Dopo 20 anni di Internet si sta tornando quindi alle origini, alla nascita della pirateria tradizionale, quando per condividere qualcosa la si piazzava sul proprio sito web e basta, la sola differenza è che nel frattempo non si caricano i file su un hosting normale, ma su appositi server ben “blindati” e “impermeabili” a un identificazione dei “reali” operatori. È questa una delle forme di quello che molti definiscono “punk capitalismo”, ben oltre le già eccessive speculazioni della finanza più selvaggia, perché adesso il tempo necessario per un’idea nell’entrare in circolo tende progressivamente a zero e su questo presupposto i vecchi modelli di business saranno seriamente assediati dalla competizione più estrema e virale. Dice Matt Mason che “la pirateria, in una società con leggi sul copyright che risalgono all’Ottocento, sia soltanto un altro modello di business che va ad occupare spazi lasciati vuoti”. Per dirla con parole semplici: non possiamo dargli torto ma c’è poco da stare allegri.