L’algoritmo che ha generato le sequenze musicali e anche il testo di presentazione di Neuer Mensch è stato generato da un’altra entità automatica, x1n, ulteriore implementazione di un “nuovo umano”, connessione e metamorfosi fra ancora organico e sintetico, corpo e software, un’inedita concatenazione frutto di artifici tecnologici, liberazione dall’esoscheletro e dall’ego autorale, eleganza concettuale bruta che scaturisce dal sostituire vecchie idee con procedimenti mai prima sperimentati. Tutte le undici composizioni presentate sono frutto insomma di un lavoro “programmato, ingegnerizzato e masterizzato da un algoritmo”, un meccanismo messo in condizione di funzionare da quella “parte di codice autonoma e continuamente modificata” che ancora chiamiamo artista-musicista-produttore e che in questo caso corrisponde al marchio Atom™, uno dei tanti pseudonimi di Uwe Schmidt. Se l’artificialità è l’incantesimo più seducente in questo nuovo millennio (e ce lo ricorda implicitamente anche un regista come Cronenberg in Crimes of the Future) la promessa di un progresso lineare si rivela falsa e frantuma ogni possibile utopia. “Il futuro arriva troppo presto e in maniera sbagliata” avvertiva Alvin Toffler e allora siamo sorpresi da questi nuovi ibridi, di nascosto ci chiediamo straniti se tutto ciò sia vero, se oggi sia veramente possibile che un’intelligenza artificiale componga per intero un’opera siffatta, mescolando conoscenze che sono altresì sottili, impalpabili, difficilmente riducibili a modelli matematici. Eppure poco importa quanto di ancora umano ci sia in una produzione del genere e che peso abbiano di conseguenza i processi generativi che vengono esibiti con orgoglio. Quello che è più significativo è questa invocazione al metaumano, all’ibridazione e alla proliferazione delle tecniche. In questa prospettiva l’autore non diventa certo un artista con superpoteri, ma al contrario cede il passo a una certa aleatorietà, mettendo a punto “processi” e non “manufatti”, annettendo errori e risultati che solo apparentemente potrebbero risultare non consoni. Questa volta non concede nulla alla piacevolezza Uwe Schmidt, insieme alle sue automazioni dotate di vita propria, anche se ad ascoltatori a loro agio con ritmi spigolosi e flussi destrutturati non risulterà neanche particolarmente ostico l’electro di un brano come “Hartcode”, né le molteplici trame abrasive, che si ritrovano pure in molta della musica da club più tendenziosa di questi ultimi anni e che campeggiano qui nella title track o in brani come “ Rausch” e “ Selbst”. Gli schemi ritmici geometrici riflettono un concetto di bellezza algida, dall’appeal venusiano e l’artificialità è portata al limite. Non mancano i momenti meno frenetici, che fanno capolino nella seconda metà dell’album e delineano paesaggi comunque distopici, inabitabili in condizioni normali, metafora “nietzschiana” che invita a un continuo superamento. (recensione pubblicata in Neural n° 71)