Il remix di Lee Coombs, scientifico nelle sue ritmiche fratturate, è uno splendido esempio di stile iconico, guidato dalle pause, dalle ripartenze, da impercettibili trasalimenti e trick stilistici, seppure queste schegge di gran competenza ci lascino un po’ di amaro in bocca. La parabola del breakbeat inglese è emblematica di come certi generi musicali, nonostante il loro potenziale innovativo, possano ritrovarsi intrappolati nelle proprie convenzioni stilistiche. Il breakbeat britannico degli anni ’90 aveva tutti gli elementi per evolversi in qualcosa di davvero rivoluzionario: una solida base ritmica, la capacità di assorbire influenze disparate e soprattutto quella peculiare attitudine british nel manipolare i suoni. Eppure, proprio quando il genere sembrava pronto per il grande salto nel nuovo millennio, i suoi più valenti esponenti hanno preferito rifugiarsi in territori familiari, atti solo a civettare con le scene mainstream. Il remix di Lee Coombs è paradossalmente sia una celebrazione che un requiem: nella sua precisione chirurgica, nella sua capacità di destrutturare e ricostruire il materiale originale, mostra tutto il potenziale tecnico e creativo del genere. Ma è proprio questa perfezione quasi matematica a suggerire come il breakbeat si sia in qualche modo cristallizzato, diventando più un esercizio di stile che un veicolo di vera innovazione. Nel panorama più ampio della musica elettronica, questa involuzione appare ancora più significativa. Mentre altri generi hanno saputo reinventarsi, il breakbeat sembra essersi autoconfinato in un angolo dorato della storia della musica da club. La vera ironia è che proprio quando la tecnologia musicale offriva possibilità infinite di evoluzione, i maestri del genere hanno scelto di guardarsi indietro anziché avanti. Il risultato è questo strano paradosso: tracce tecnicamente impeccabili che però sembrano appartenere più a un museo del suono che al presente della musica elettronica. Un destino che nessuno avrebbe potuto prevedere per un genere che aveva fatto dell’innovazione la propria bandiera, e che “In It Together” testimonia con lucida, quasi dolorosa, chiarezza.